Album incluso nel 1987 in un cofanetto di quattro dischi intitolato "Fabrizio De André" insieme a "Volume I", "Volume VIII" e "Rimini". Nuove esecuzioni di canzoni già edite e quattro canzoni inedite. Alcune edizioni su CD-DA hanno diversa copertina. "S'i' fosse foco, arderei 'l mondo / s'i' fosse vento, io 'l tempesterei". Cecco Angiolieri, il primo "young angry man" della letteratura europea, iniziava così, sette secoli or sono, il suo sonetto più terribile. Nell'era dei mistici, fra le fioriture leggiadre del "dolce stil novo", il poeta senese scopriva il gusto acre dell'imprecazione come contravveleno al male di vivere; il lessico della rabbia come suggello alla disperazione; il ghigno dilatato fino alla volgarità come verifica del tragico quotidiano. Fabrizio De André, uno degli autentici "young angry man" della canzone contemporanea, ha recuperato la lezione di messer Cecco nella sua allucinante attualità. Andando bene al di là di certe definizioni di comodo, che fanno di Angiolieri un acido velleitario e un bestemmiatore da trivio, ha compreso a fondo la sconcertante verità del poeta medievale, si è calato entro la drammatica accoratezza della sua "protesta", oggi più che mai viva, parlante più che mai. Ecco perché l'ipotesi di un incontro in ispirito fra il cantore dugentesco e il cantastorie novecentesco non è soltanto suggestiva, è anche credibile. Ovvero il fatto che De André abbia rivestito di musica (un'ironica giava) i versi del senese non è casuale, ma muove da motivazioni precise. E, quella tra Cecco e Fabrizio, un'occhiata d'intesa fra due autori distanti sette secoli l'uno dall'altro, eppure vicinissimi, quasi parenti. Chi conosce Fabrizio attraverso le sue canzoni -la lunga storia di una ribellione- non faticherà ad accertarsene. Basterà, a scoprire la natura e la consistenza di tale legame, ascoltare questo disco in cui De André ripropone, accanto al sonetto di Angiolieri, alcune fra le pagine più significative della sua produzione di ieri e di oggi. Fra queste ultime è importante rilevare due traduzioni da Brassens, un altro poeta cui il cantautore genovese è legato da particolari affinità di gusto, di scelte, di inclinazioni. A ben guardare direi che la protesta, anzi la ribellione di Fabrizio nasce da un assoluto bisogno di fede, dalla ricerca di un qualcosa in cui credere che è testimonianza d'amore per l'uomo, fiducia nel suo divenire. È questa tensione costante a salvare il mondo poetico di Fabrizio dalle sabbie mobili del nihilismo, a trattenerlo sull'orlo della negazione totale per impedirgli di precipitare. Per sconfortata che sia la sua visione del mondo, vi è sempre l'impulso ad andare avanti, a cercare ancora. Per distaccata e rinunciataria che possa sembrare la sua cronaca, è facile leggervi fra le righe un invito alla lotta, un ammonimento a prendere coscienza della realtà per imboccare altre strade. Questo mi pare vogliano insegnarci i poveri eroi di Fabrizio, solitari campioni di un'umanità che brancola nel buio e cerca la luce, e, troppo spesso vittima del proprio cammino, inciampa fra i sassi che costellano le vie dell'esistenza. Perché, a guardare in alto, si rischia di incespicare: come Marinella che muore nel momento stesso in cui scopre l'amore; come Miche', omicida per il timore di perdere la sua ragazza, suicida per la disperazione di averla perduta; come il soldato de "La ballata dell'eroe", che "troppo lontano / si spinse a cercare / la verità"; come Piero, ucciso fra i papaveri dalla furia feroce della guerra, proprio mentre scopre nel grembo di quest'ultima il sapore di un'impensata fraternità: "E mentre andavi con l'anima in spalle / vedesti un uomo in fondo alla valle / che aveva il tuo stesso identico umore / ma la divisa di un altro colore". Eccoci così al tema dell'"homo homini lupus", l'aspetto più inquietante del dissenso di Fabrizio De André nei confronti della società. L'uomo non è soltanto vittima dei propri errori o del proprio destino; è soprattutto vittima degli altri, dell'ipocrisia, dell'odio, della malafede del prossimo. Così la cortigiana sfiorita, di stecchettiana memoria, de "Il testa mento", costretta a vendere immagini sacre all'angolo di una chiesa perché il consorzio sociale non le lascia altra possibilità di sussistenza; così quel personaggio di cui si racconta ne "Il gorilla", ucciso dalla corriva giustizia degli uomini: "Gridava mamma come quel tale / cui il giorno prima come ad un pollo / aveva fatto tagliare il collo". La morte (dei sogni, dell'amore, della dignità). La guerra, l'odio, il marciume che è dentro e intorno a noi. Sono questi, dunque, i sassi che Fabrizio semina lungo l'itinerario dei propri personaggi, per insegnare a noi a camminare. Sono i capisaldi della sua tristezza -e della sua speranza- di artista profondamente partecipe della realtà. Di uomo che vive la vita degli altri uomini, vi si cala fino in fondo e la soffre senza alternative, totalmente. Il fatto che per esprimerla egli non di rado ricorra all'umorismo non significa nulla. È, il suo, uno humour sempre disponibile ai richiami del tragico, quotidiano o no. Nessuna voglia di ridere: semmai il sarcasmo "cattivo" di Cecco Angiolieri. Un sarcasmo che è l'alibi dell'amarezza, che ha l'infinita tensione di un pianto trattenuto. [Nota di copertina di Cesare G. Romana]